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RISALE AL 1390 LA PRESENZA EBRAICA A CENTO

By on Gennaio 28, 2023 0 114 Views

a proposito della Giornata della Memoria
Con l’aiuto di Andrea Gilli andiamo a riscoprire i simboli più significativi della presenza della comunità ebraica in città.

La giornata del 27 gennaio ha assunto col tempo il significato simbolico della fine della persecuzione del popolo ebraico. La scelta della data ricorda il 27 gennaio 1945 quando le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, nel corso dell’offensiva in direzione Berlino, arrivarono presso la città polacca di Auschwitz, scoprendo il tristemente famoso campo di Concentramento e Sterminio di Auschwitz-Birkenau e liberando i pochi superstiti rimasti nelle baracche.
La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono al mondo l’orrore del genocidio nazista e l’orrore di una tragedia nella quale morirono milioni di persone.
In occasione del Giorno della Memoria due parole sulla storia degli ebrei a Cento, del Ghetto e del loro cimitero.

La prima documentazione della presenza ebraica a Cento risale al 1390, anno cui risale un atto notarile nel quale l’ebreo Manuele del Gaudio dichiara di aver ricevuto 120 lire da Bartolomeo Grazioli a restituzione di un prestito che gli aveva fatto. Da questo momento fino al XV secolo la presenza ebraica in città è costante e documentata.

Negli Stati Estensi, di cui Cento faceva parte, gli ebrei godettero di migliori condizioni di vita, rispetto a quelle di altri stati tant’ è che molti profughi espulsi dalla Spagna nel 1492, qui trovarono accoglienza e dimora.
Nel 1598, Cento per la Devoluzione di Ferrara*, tornò allo Stato Pontificio, stato che nel 1555 aveva visto l’emanazione da parte del pontefice Paolo IV di una bolla che, ribadendo la “servitù perpetua” del popolo ebraico, disponeva la segregazione nei Ghetti di tutti gli ebrei degli stati pontifici.

Con il passaggio al papato di Ferrara e della sua provincia, i cardinali legati imposero la concentrazione degli ebrei in tre ghetti: Ferrara (1624-27), Lugo (1635) e Cento (1639). Inizia così, anche per gli ebrei centesi, il periodo della segregazione.
Le attività maggiormente praticate dai componenti della comunità erano il prestito di denaro e la medicina,

IL GHETTO DI CENTO.

È nel 1636 che il legato pontificio bolognese Stefano Durazzo detta le norme relative al ghetto centese.
La scelta cadde su un’area centrale della cittadina dove già alcune famiglie di ebrei abitavano; alcuni proprietari cristiani dovettero cedere le proprie abitazioni al responsabile della Comunità Mandolino Simone Padoa in affitto perpetuo e quest’ultimo assegnò i locali ai 13 capifamiglia, già residenti o che vi si trasferiscono da altre zone della città.
La struttura del ghetto di Cento è un esempio di case tutte affaccianti su un cortile principale (hatser), cui si accede da via Provenzali, e due cortili secondari molto più piccoli, che danno su via Malagodi.

La superficie coperta che costituisce l’insediamento del Ghetto è pari a 1800 mq, la superficie utile, cioè quella che si dispiega ai vari livelli, 69 unità immobiliari per complessivi 197 vani abitativi, più 14 fra botteghe e magazzini, è pari a circa 3300mq.

Due i soli punti di accesso al cortile, costituiti da passaggi coperti da ampio voltone, fungevano da confine del Ghetto con l’esterno; due portoni di legno che ogni notte dovevano essere chiusi: uno su via Grande, (oggi via Marcello Provenzali) l’altro in Borgo di Domani (oggi via Olindo Malagodi).

La comunità centese, pur non particolarmente numerosa, ebbe grande importanza culturale sia per la presenza di illustri rabbini, studiosi e copisti, sia per averne ospitati solo temporaneamente. Molte famiglie ebraiche illustri vissero nel nostro Ghetto, ricordiamo tra questi i Padoa, i Modena, i Fano, i Carpi, i Finzi, i Pesaro, i Neppi, i Levi, i Veneziani.

Man mano che, dopo il 1848, le regioni italiane passarono sotto il regno d’Italia, gli Ebrei divennero cittadini e acquistarono i diritti civili: a poco a poco, dapprima i più ricchi, lasciarono le abitazioni del Ghetto trasferendosi in altri quartieri della città. Le istituzioni comunitarie e le sinagoghe restarono negli ex ghetti, dove spesso ancora si trovano.
Successivamente gli Ebrei centesi si trasferirono gradualmente da Cento in altre città, già dal 1917 le uniche rappresentanti della Comunità centese erano le tre sorelle Finzi, che in quanto figlie dell’ultimo shamash (custode) della sinagoga diventarono anche le custodi dei luoghi e dei beni ebraici centesi.
All’incirca dal 1920, le abitazioni del Ghetto seppur già fatiscenti, furono occupate da famiglie locali.
Nel 1956 con la morte di Bice Finzi la comunità ebraica centese cessò di esistere.
Dopo un lento e progressivo abbandono da parte degli abitanti, gli edifici subirono un inevitabile ulteriore decadimento che si protrasse fino alla fine degli anni Novanta, quando un’impresa privata locale iniziò lavori di recupero sotto la guida dell’IBC (Istituto per i Beni Artistici e Culturali). Grazie a questi lavori sono ancora oggi riconoscibili la struttura esterna degli edifici e il cortile interno su cui si affacciano i balconi ornati da ringhiere in ferro battuto, compreso quello della sinagoga sopra l’entrata di via Provenzali, i voltoni di accesso e l’ingresso alla sinagoga, una scala elicoidale originale e i percorsi intricati di scale interne.
Oggi la zona del ghetto è un quartiere residenziale di pregio.

IL CIMITERO EBRAICO DI CENTO

Il cimitero ebraico di Cento è una testimonianza reale e viva dell’ormai scomparsa Comunità Ebraica di Cento, sia perché il cimitero è tuttora attivo sia per il significato religioso ebraico di morte: infatti, la traduzione letterale del termine beth ha-chayyim. cimitero, è “la casa dei viventi”.
Il cimitero fu istituito nel 1689 quando il cardinale Niccolò Acciajoli. Legato di Ferrara, concesse agli Ebrei di Cento l’autorizzazione per acquistare un appezzamento di terreno da destinare a luogo di sepoltura. Oggi il cimitero si presenta come un terreno di forma rettangolare allungata delimitato da un muro di cinta alto due metri; dopo aver attraversato un cancello di ferro ed aver percorso un vialetto ci si trova al suo ingresso. La parte più antica è sud, al di fuori del muro di cinta. Essa è priva di lapidi in quanto le limitazioni imposte dalla Chiesa comprendevano anche il divieto di mettere lapidi sulle sepolture.
Qualche anno fa è stata posta una piccola lapide in memoria di ‘Immanuel Chay Ricchi illustre rabbino ferrarese ed eminente cabalista ivi sepolto nel 1743.
Le lapidi all’interno del muro di cinta non presentano particolari pregi artistici e sono di forme e dimensioni varie; le più antiche risalgono all’inizio XIX secolo, anni in cui il cimitero fu ampliato e delimitato dal suddetto muro. Le iscrizioni sono ovviamente in lingua ebraica, alle quali si affianca in alcuni casi anche la traduzione in italiano, procedendo verso gli anni più recenti.
Una particolarità del cimitero ebraico di Cento, comune a Ferrara e Mantova, era quella di suggellare il sepolcro per mezzo di un grosso timbro di legno, che imprimeva nel terreno la parola shalom. Questa usanza era praticata con lo scopo di tentare di limitare gli episodi di profanazione dei sepolcri effettuati, principalmente, da studenti delle vicine università nelle quali si effettuavano dissezioni anatomiche.
La scritta impressa nel terreno era protetta con un mattone o con quant’altro di sufficientemente piatto a protezione della scritta impressa. Il sepolcro così suggellato poteva essere controllato in qualsiasi momento qualora sorgesse il sospetto di una profanazione; nel qual caso alcuni rappresentanti della Comunità Ebraica avrebbero dovuto recarsi presso le vicine università per reclamare il corpo del defunto, oltreché trasmettere suppliche alle autorità ecclesiastiche e civili affinché ciò avvenisse.

*La devoluzione di Ferrara fu il momento di passaggio del governo della città di Ferrara dalla dinastia estense al diretto controllo dello Stato Pontificio. Alfonso II d’Este morì nel 1597 senza eredi legittimi e il suo successore designato Cesare d’Este non venne riconosciuto dalla Chiesa quindi papa Clemente VIII nel 1598 si riappropriò dell’antico feudo papale riportandolo sotto la sua diretta giurisdizione, esercitata attraverso i cardinali legati. La devoluzione segnò per la ex capitale del ducato il tramonto della sua grandezza e il ridimensionamento a semplice città di provincia.

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